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Lo Scienziato risponde

Domande & risposte con il Prof. Antonio Giordano

1. Perché viene definito “nuovo” coronavirus?

Il virus Sars-CoV-2 appartiene alla famiglia dei coronavirus; virus responsabili di infezioni per lo più respiratorie nell’uomo ed in una varietà di animali tra cui uccelli e mammiferi (come gatti, cammelli, pipistrelli). Il “nuovo” coronavirus è partito come zoonosi, ossia come una malattia che dall’animale ha trovato tropismo nelle cellule umane. Il salto di specie, conosciuto dagli addetti ai lavori come “spillover”, ha favorito la sua stabilizzazione e diffusione tra gli individui della nuova specie. Grazie all’isolamento della sequenza virale del Sars-CoV-2 oggi possiamo dire che questo virus presenta circa il 96% di omologia con un Betacoronavirus (RaTG13) del pipistrello Rhinolophus, chiarendo anche che sia frutto di una selezione naturale. Valutando l’andamento della pandemia 2020 possiamo notare analogie e differenze con altri virus, “cugini” dell’attuale, come ad esempio il SARS, famoso per l’omonima epidemia scatenatasi nel 2003. Come aspetti comuni possiamo elencare: innanzitutto che le due epidemie sono state causate da coronavirus (appunto), la diffusione di entrambe le infezioni ha avuto origine in un mercato, in entrambi i casi c’è stato spillover. Analizziamo, invece, le differenze: i due coronavirus, pur appartenenti alla stessa famiglia, hanno avuto evoluzioni diverse, il nuovo si è diffuso più rapidamente ed in maniera più estesa della SARS. Anche il periodo di incubazione è diverso: varia da 3 a 7 giorni per la SARS e da 7 a 14 giorni per SARS-CoV-2. Ciò potrebbe aver influenzato la diffusione: infatti, nel 2003, nonostante la preoccupazione dei medici, la comunicazione dell’emergenza avvenne con grave ritardo, questa volta, nonostante, la prima allerta sia arrivata a fine dicembre 2019, non è bastata a contenere l’epidemia. Nel 2003, inoltre, non fu dichiarata l’emergenza sanitaria globale, non esistendo ancora le norme specifiche, istituite, poi, nel 2005. La malattia Covid-19, si è ingannevolmente presentata come molto infettivo ma poco mortale. Forse queste alcune delle motivazioni per cui è stata sottovalutata la sua diffusione, estremamente rapida.

2. È vero che con il caldo il virus può indebolirsi e diventare meno contagioso?

Consiglierei di non affidarsi troppo all’aumento delle temperature. In effetti alcuni virus respiratori mostrano un andando stagionale con diffusione scarsamente efficiente in presenza di temperature più alte. I coronavirus tendono ad essere virus invernali. Con l’aria fredda e secca, i sottili strati di liquido che ricoprono i nostri polmoni e le vie respiratorie diventano ancora più sottili, e le ciglia che poggiano in quegli strati faticano ad eliminare virus e altre particelle estranee. Con il caldo e con l’umidità dell’estate gli agenti patogeni hanno difficoltà a proliferare all’interno del tratto respiratorio superiore. Questo può dipendere sia dal virus stesso che resiste meglio in condizioni più umide sia da una minore efficienza del nostro sistema immunitario durante l’inverno. Sfortunatamente, ciò potrebbe non avere importanza per la pandemia di COVID-19; il nuovo virus si è diffuso rapidamente in paesi come Singapore (che è ai tropici) e l’Australia (che è ancora in estate). Credo che l’estate da sola non ci salverà, pertanto è auspicabile continuare ad attuare buone norme di distanziamento.

3. A cosa serve lavarsi spesso le mani?

Il virus entra nel corpo attraverso gli occhi, il naso e la bocca, che a loro volta entrano facilmente in contatto con le mani. Il lavaggio e la disinfezione delle mani (con soluzione a base alcolica) sono la chiave per prevenire l’infezione. A tal proposito farei una riflessione sull’utilizzo dei guanti: indossarli è assolutamente uguale a come avere le mani, con la differenza che le persone ingannevolmente potrebbero sentirsi più tutelate con il loro utilizzo. Quindi, ritengo, che sia migliore la disinfezione delle mani che l’uso di dispositivi, come i guanti, per prevenire la diffusione dell’infezione.

4. Cosa indicano i valori R0 e Rt?

Entrambi sono i parametri che monitorano la diffusione della malattia, dell’infezione in questo caso. Ma più dettagliatamente: R0 serve a valutare l’andamento della malattia nella sua fase iniziale, in assenza di interventi.  Per R0 pari a 1 si intende che un singolo individuo infetto potrà a sua volta infettare una persona; uguale a 2, due persone e così via. Quindi, maggiore sarà il valore di R0, più elevato sarà il rischio di diffusione del virus. Il parametro Rt, invece,  descrive il tasso di contagiosità, di trasmissibilità, dopo l’applicazione delle misure atte a contenere il diffondersi della malattia.

5. Qual è la differenza tra tampone e test sierologico?

Il tampone è il test molecolare attualmente riconosciuto per la diagnosi certa di infezione da coronavirus in corso. Si basa sulla raccolta di cellule infettate tramite un tampone naso-fringeo e sulla successiva amplificazione del materiale genetico virale (RNA). La positività al test indica infezione da Sars-CoV-2 in corso, al momento del prelievo. Un risultato negativo indica assenza di infezione in corso ma non esclude un’infezione pregressa e non valuta la risposta anticorpale. I test sierologici permettono di valutare la presenza e, quindi, lo sviluppo da parte del nostro sistema immunitario di anticorpi in risposta all’infezione da Sars-CoV-2; ricercano gli anticorpi (immunoglobuline) di classe IgM e IgG. La positività alle IgM indica infezione in corso; la positività alle IgG indica un pregresso contatto con il virus. I test sierologici sarebbero più utili e più facili da effettuare, ma al momento presentano ancora alcune limitazioni riguardo la sensibilità e la specificità. Infatti, non essendo ancora ottimali questi ultimi parametri, a volte si possono avere risultati falsi positivi o falsi negativi.

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